V

LE «SATIRE»

Se l’attività lirica si ricollega, nella fase latina, alla stessa prima formazione ed esperienza dello scrittore, dispiegandosi poi, specie nella fase italiana, in un lungo arco di tempo, fra preparazione e accompagnamento dello sviluppo del Furioso, e l’attività teatrale comica si svolge pure in un lungo periodo che va dagli anni giovanili fin quasi alla fine della vita del poeta, le Satire si collocano entro termini di tempi piú stretti e piú tardi (fra il 1517 e il 1525, dopo la prima edizione del poema – 1516 – e a cavallo fra la seconda e l’apprestamento dell’ultima).

E dunque esse corrispondono ad un tempo di piena maturità e, pure nella loro composizione saltuaria e legata ad occasioni e motivazioni epistolari (tutte sono indirizzate ad un preciso personaggio storico, parente o amico dell’Ariosto), esse organicamente appartengono ad una precisa fase e direzione artistica e tanto piú perciò rifiutano quella valutazione tradizionale che riconosceva sí ad esse accenti di schiettezza umana, magari di felicità poetica, e le poneva al di sopra delle liriche e delle commedie, come certo esse meritano, ma le privava di una vera, consapevole destinazione e impostazione artistica considerandole solo come un vivace documento autobiografico, uno sfogo immediato e scarsamente elaborato di umori e di sentimenti dell’uomo Ariosto.

Viceversa deve essere chiarito anzitutto (come io feci già in un commento ariostesco pubblicato dall’editore Sansoni nel 1942 e poi piú decisamente precisai in un saggio uscito su «Belfagor» nel 1946, raccolto nel volume Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, uscito presso l’editore D’Anna nel 1947) che le Satire sono ben piú di un documento autobiografico; sono un’opera decisamente artistica, sono il frutto non di un facile abbandono epistolare alla confessione e alla testimonianza autobiografica, ma di un consapevole ed ispirato impegno artistico maturo già rafforzato dalla composizione della prima redazione del poema, dall’esercizio in pieno sviluppo dell’attività lirica e teatrale.

Non si scambi grossolanamente la facilità e spontaneità incantevole del tono medio e discorsivo delle Satire con una prosaicità dovuta ad intenzioni pratiche, epistolari, e al semplice gusto di un raccontarsi e confidarsi fuori di ogni volontà di poesia e di arte, in una specie di cronaca autobiografica, sdegnata e sorridente, casualmente ravvivata da tocchi quasi involontari della mano del grande poeta.

Quella «facilità» è in effetti una «difficile facilità», quella «cronaca» è in effetti una «cronaca poetica», quei tocchi e quadri piú facilmente riconosciuti come poetici sono in effetti le punte piú evidenti di tutta un’organica tensione ispirativa indirizzata coerentemente a fini artistici, quel tono medio discorsivo confidenziale e libero è in effetti il frutto alto di una «poetica» che, entro la varietà e articolazione delle direzioni espressive ariostesche, mirava appunto alla realizzazione di un tono poetico «medio», antiretorico e antieroico e pur non prosastico, capace di passare dal realistico al fiabesco, dall’ironico all’appassionato, sempre tenendosi ad una base media volutamente minore, ad una voce affabile, schietta, «naturale».

Né ciò deve d’altra parte risolversi nell’idea altrettanto sbagliata di una impresa preziosamente e sterilmente «letteraria» (nel senso peggiorativo di questa, spesso ambigua, parola), in un calcolo aridamente sperimentalistico, ché quella stessa cosciente direzione artistica scaturiva, coerente ed organica, da un’intima esigenza espressiva, dalla necessità ariostesca di dar vita artistica ad una matura considerazione e presa di coscienza della propria condizione personale e umana, del senso intimo amaro e insieme antidrammatico e antiretorico della propria vicenda, della validità delle proprie convinzioni, preferenze, scelte vitali nel contesto di una società, di un tempo, della comune condizione umana.

Sicché la stessa scelta della forma epistolare – mentre serve ad inserire piú concretamente in una realtà socievole, in una corrispondenza con vive persone del tempo e di una cerchia di amicizia e di rapporti affettuosi effettivi, la rappresentazione di vicende e di atteggiamenti dell’uomo-poeta – riprende anche l’esempio autorevole e congeniale dei Sermones di Orazio nella loro direzione artisticamente discorsiva e nel loro mobile passaggio da punte piú severe e caustiche a slarghi piú sorridenti e scherzosi, ma accentuando, rispetto al modello classico, il gusto piú personale di una poesia che traduce il ritmo piú elementare della vita, e il sapore piú schietto di cose e sentimenti comuni, i modi semplici e pur mai volgari di un’esperienza umana senza convenzioni e falsificazioni retoriche, centralmente persuasa di certi valori essenziali[1].

Quante volte nelle Satire si coglie cosí, nel tessuto di un discorso poetico affabile e medio, questo sapore delle cose schiette e concrete come schietto e concreto è il loro riferimento a quel mondo di gusti sobri, di preferenze per una vita tranquilla e raccolta, convinta, per esperienza fatta, della inutilità delle preoccupazioni ambiziose e dell’ossequio a convenzioni scomode e vane! Come particolarmente può farsi nel caso di precise terzine in cui cose e sentimenti si fondono in un tono di realismo poetico, pacato e denso. Si pensi alla terzina (vv. 25-27) della Satira al fratello Galasso (la II), in cui l’Ariosto chiede al fratello, a Roma (dove egli andrà per ottenere il riconoscimento di un beneficio ecclesiastico necessario alla sua condizione economica non brillante), l’apprestamento di un alloggio modesto e comodo, provvisto, senza inutili lussi, di essenziali elementi di «conforto» e di un cuoco non raffinato:

Provedimi di legna secche e buone;

di chi cucini, pur cosí a la grossa,

un poco di vaccina o di montone.

O si pensi, sul piano compositivo di un intero componimento, alla Satira diretta ad Alessandro Ariosto e Ludovico da Bagno (la I) che, incentrata nella giustificazione del suo mancato viaggio in Ungheria al seguito del cardinale Ippolito, si allarga nella rappresentazione delle sue abitudini ed esigenze di quiete, di pacata fruizione di agi essenziali e semplici, di vicinanza alla donna amata nell’amata città, delle sue care consuetudini e delle sue alte fantasie poetiche. Mentre intorno a questo centro fondamentale di tono si intrecciano, con sobria misura ed effetto di contrasti, accentuazioni e smorzamenti abilissimi, piú energiche espressioni di rammarico sulla sua sorte non amata di cortigiano per necessità economiche

(Io, per la mala servitude mia,

non ho dal Cardinale ancora tanto

ch’io possa fare in corte l’osteria[2]),

(vv. 85-87)

esaurienti ed efficacissime impostazioni di macchiette satiriche (come quella del cortigiano timido che alla mensa del suo signore non osa esprimere a parole, come altri fanno, il suo consenso a ciò che il potente va dicendo, ma supplisce con la radiosa e servile espressione del volto:

e chi non ha per umiltà ardimento

la bocca aprir, con tutto il viso applaude

e par che voglia dir: anch’io consento),

(vv. 16-18)

sintetiche e mosse rappresentazioni, fra comiche e profondamente serie, di se stesso e della propria prefigurata situazione infelice nella lontana corte ungherese, dove tutto, fin dagli elementi piú materiali del clima e del cibo, insopportabili per la sua delicata struttura fisica, contribuirebbe a renderlo irritabile, a privarlo del suo equilibrio e della sua cordialità:

Io mi riduco al pane; e quindi freme

la colera; cagion che a li dui motti

gli amici et io siamo a contesa insieme.

(vv. 79-81)

Sicché, affondando l’indagine al centro animatore delle Satire, la stessa comicità e la serena ironia con cui l’Ariosto considera anche se stesso non sono fine a se stesse e contribuiscono a far rilevare il fondo serio e convinto di questa poesia, che tende a svuotare di ogni retorica e di ogni convenzionalità interessata ed ipocrita i movimenti degli uomini, il meccanismo delle azioni umane, e ad opporre a quelle una saggezza fatta di esperienze e di disillusa conoscenza degli altri e di se stesso e dunque frutto di una maturità che ha ormai sperimentato le dimensioni tutt’altro che incomunicabili della realtà e della fantasia ed è capace di prese di posizioni fondamentali per una visione della vita profonda e insieme non titanica e «superomistica».

Basti in proposito ricordare ancora i versi già citati ed essenziali della Satira IV (vv. 40-42), che esprimono la profonda antipatia dell’Ariosto per ogni astratto moralismo e puritanesimo ipocrita e velleitario:

Tu forte e saggio, che a tua posta muovi

questi affetti da te, che in noi nascendo

natura affige con sí saldi chiovi!

Questa schiettezza e sincerità profonda nel riconoscere la natura umana e le sue passioni istintive e necessarie è pari alla schiettezza e concretezza della rappresentazione della realtà nelle Satire, siano le «cose» piú elementari e fisiche, siano i paesaggi sobri e senza decorazione e pur insieme civilissimi e supremamente armoniosi (come nel ricordo della gioventú poetica e del soggiorno nella villa del Mauriziano vicino a Reggio:

non mi si può de la memoria tòrre

le vigne e i solchi del fecondo Iaco

la valle e il colle e la ben posta tórre).

(vv. 124-126)

Su questo fondo di concretezza, di esperienza, di saggezza non libresca ed astratta, hanno radice organica e coerente i liberi toni satirici, comici, fiabeschi che arricchiscono le Satire e ne fanno un’opera poetica validissima, che tanto ci dice dell’animo ariostesco e tanto insieme ci dimostra la complessità delle sue disposizioni poetiche e delle sue capacità artistiche, rifiutando un valore solo documentario e quello di un divertimento superficiale e leggero. In questo essenziale tono «medio» poetico in cui il contatto fra realtà e fantasia è piú evidente ed aperto, ha poi, come dicevo, fondamentale importanza il passaggio dalle parti piú di vicenda vissuta e di felicissima rappresentazione di scene ironiche e comiche legate ad esperienze concrete e valide per l’acquisto di una saggezza matura, a quei geniali apologhi fiabeschi, attinti ad una saggezza piú popolare, anche se spesso sorretti da esempi letterari, che risolvono in un tono piú fantastico, leggero, musicale, il senso dell’esperienza vissuta e ricavata dalle vicende rappresentate.

Sarà il caso della Satira V, al cugino Malaguzzi per un suo eventuale matrimonio, nella quale la satira sulla vanità delle, pur amatissime, donne e sui pericoli del matrimonio, con le sue occasioni di gelosia e con l’assurdità di questa (qualora manchi l’onestà della donna), si risolve nell’apologo malizioso e spregiudicato dell’anello miracoloso che assicura della fedeltà della moglie: apologo che in toni fiabeschi e flautati, sorridenti e pausati trasfigura, senza disperderla, la realtà in fantasia e musicale levità, in uno «scherzo» musicale senza volgarità e soffuso di un geniale sorriso.

O sarà, ancor meglio, il caso della Satira III che narra al fratello Galasso lo sfortunato viaggio a Roma e la visita del nuovo papa, Leone X, nella vana speranza di averne aiuti concreti, e che per due volte passa dalla vicenda narrata con tanto misurata efficacia (al centro la visita al papa, il bacio che questi dà al vecchio amico su «le gote ambe» dopo essersi, con solenne e comica gravità e lentezza, piegato verso di lui: «piegossi a me da la beata sede»; e poi il ritorno del povero gabbato poeta, pieno di speranze e illusioni, attraverso Roma sotto la pioggia) alla risoluzione piú musicale e fiabesca degli apologhi. Prima quello della misera gazza che morirà di sete se attenderà il suo turno alla fonte, durante la siccità, quando il padrone, che pur tanto l’amava nei tempi facili, ora le preferisce tutti gli altri animali piú utili (cosí come avverrà al poeta se attenderà la grazia del papa che deve ora beneficare anzitutto i parenti e tutti quelli che gli sono stati e gli saranno utili). Poi, su di un tono piú libero e incantevole, alla fine della satira, quello della luna e degli sciocchi paesani che, vedendola come posata sul monte vicino, credono di poterla mettere in un sacco e cosí si affaticano invano a salire sul monte per poi accorgersi, una volta giunti alla cima, che la luna bramata è sempre piú lontana nel cielo.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora

e che inesperta era la gente prima

e non eran l’astuzie che son ora,

a piè d’un alto monte, la cui cima

parea toccassi il cielo, un popul, quale

non so mostrar, vivea ne la val ima;

che piú volte osservando la ineguale

luna, or con corna or senza, or piena or scema,

girar il cielo al corso naturale;

e credendo poter da la suprema

parte del monte giungervi e vederla

come si accresca e come in sé si prema;

chi con canestro e chi con sacco per la

montagna cominciar correr in su,

ingordi tutti a gara di volerla.

Vedendo poi non esser giunti piú

vicini a lei, cadeano a terra lassi,

bramando invan d’esser rimasi giú.

Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,

credendo che toccassero la luna,

dietro venian con frettolosi passi.

(vv. 208-228)

Tutto vi è insieme concreto e fantastico, tutto vi è perfettamente dosato e ritmato fino all’esito della caduta a terra dei poveri sciocchi delusi, accentuato dalle stesse rime tronche in ú, dalla prospettiva quasi cinematografica dal basso in alto, e dunque con l’evidente impiego di risorse artistiche e non in un semplice narrare prosastico e sciatto.

E se la prima molla autobiografica (ma vita e poesia non sono cosí opposte e incompatibili fra loro come vorrebbero certe estetiche troppo tese a considerare la poesia come un raptus mistico e un miracoloso, inconsapevole affiorare sulla pagina di elementi sovrumani o magici) delle Satire fu certo il brusco movimento di rottura e di crisi provocato dalla difficile vicenda della partenza del cardinale Ippolito per l’Ungheria (quando l’Ariosto meglio vide la precarietà della sua situazione cortigiana non assicurata dalle sue alte prestazioni letterarie e visse indubbiamente un momento di sconforto, di amarezza, di sdegno, di protesta che importava un’approfondita diagnosi della sua condizione, della condizione della vita di corte[3], e in genere della vita umana in cui il giusto è esposto a difficoltà e pericoli incessanti), va pur detto che tale momento di crisi e di pessimismo non esaurisce di per sé la realtà del mondo interiore ariostesco che si esprime nelle Satire e si riflette nella terza redazione del poema (come poi meglio vedremo). La saggezza, la volontà di vita e di armonia, il bisogno di fruizione ed espressione di valori consistenti e naturali si caleranno piú nell’intimo dell’esperienza privata, in una gelosa difesa della propria libertà, ma non mancheranno di reagire, entro le stesse mosse ironiche e satiriche, ad una definitiva posizione pessimistica e disgustata. La spregiudicata, disillusa ed esperta tolleranza, nella coscienza dei limiti umani, che si colora di note piú aspre e polemiche, porta anzi come ad una maggiore saggezza che non recide mai i vincoli del singolo con gli altri uomini e i suoi doveri verso la società in cui vive, che non lo spinge a chiudersi in un’assoluta misantropia o a salvarsi nell’appello mistico ad una superiore realtà trascendente.

Cosí, se le Satire possono aiutarci a capire la natura non facilmente armonica o idillica-ottimistica dell’Ariosto verificabili anche nei particolari caratteri della stessa consonanza con elementi e procedimenti satirici dei classici e con la fierezza e protesta morale dantesca[4], esse debbono pure, con la loro intera, compiuta realtà, farci capire insieme la piú generale natura dell’uomo e della sua esperienza mai portata all’eccesso e al semplice «no», e quella della sua poesia tesa a riequilibrarsi e ad armonizzarsi. Come appunto avviene nelle Satire proprio nel percorso costruttivo delle loro singole unità, proprio nell’alleggerimento degli apologhi e favole, proprio nel loro tono medio antiretorico, antieroico, ironico ed autoironico e pur non tale da costituire una deformazione grottesca e avvilente del poeta stesso e della vita umana.

Né si trascuri infine il fatto che, anche nella direzione del rapporto fra l’Ariosto e le offerte ed esigenze della letteratura del suo tempo, le originalissime Satire rappresentano un’altra delle conferme del classicismo moderno ariostesco, del modo del suo operare inventivo e originale entro il tessuto di una tradizione. Infatti la «satira» (e si noti che questo parlare di «genere» implica il riconoscimento storico di un atteggiamento cinquecentesco inevitabilmente calcolabile in una storia di cultura letteraria, in una storia di poetica entro cui non si può ignorare come gli artisti di quell’epoca sentissero vivo il genere e vi cercassero una particolare tradizione, superandola se geniali, ma comunque tenendone il massimo conto) ci porta, come il teatro, ad indicare la novità ariostesca in un campo stilistico, nel classicismo volgare che vuol superare i tentativi piú alessandrini e popolareggianti della letteratura quattrocentesca, e ci porta insieme a sottolineare la sua adesione a motivi letterari, a forme, a strutture espressive che si venivano concretando in quell’inizio di secolo. È noto che dopo un esercizio medioevale di satira latina e volgare (Orazio era apparso soprattutto come «Orazio satiro»), antifemminile, antifratesca, antimperiale, o sentenziosa e profetica, nel Quattrocento un piú diretto contatto con i latini, Giovenale e Persio principalmente, aveva convalidato su di un piano piú tecnico (le imitazioni furono abbondanti anche in latino nella vicinanza maggiore possibile con i modelli umanisticamente riportati a modelli di vita solo attraverso la perfezione formale: cosí il ferrarese Tito Vespasiano Strozzi nel suo Sermonum liber) la tradizionale predilezione per un discorso poetico capace di ottenere un particolare tono medio entro una suggestione generale di toni vari, tra burleschi e violenti, tra familiari e moraleggianti. Mentre per opera di poeti oscuri e prosastici la terzina veniva ripetutamente adibita a canzoni morali, a satire, a capitoli (Vinciguerra, Sasso, Sommariva, Accolti), che l’Ariosto dové risentire, specie nell’ambiente ferrarese in cui operava il Pistoia, riallacciando un’esperienza piú popolare e burlesca con la tradizione oraziana, e creandosi uno strumento adatto alla sua saggezza poetica, al suo gusto di esperienza vitale e di agio letterario.

Infine dovrà ancora confermarsi come le Satire, piú ancora delle altre opere «minori», ci avvicinino – su di un piano meno intensamente ispirato ed alto, e pur certo piú sicuro e poetico rispetto a commedie e liriche – a caratteri centrali del poema e, soprattutto per il passaggio agevole da realtà a trasfigurazione di essa, da naturale a fantastico, per la loro ricca e poetica offerta di una concretezza e di un’esperienza lievitate di fantasia che è idealmente alla base del narrare poetico del Furioso.


1 Le Satire vennero pubblicate solo nel 1534, dopo la morte dell’autore, in un’edizione clandestina (opera di Francesco Rosso da Valenza a Ferrara) e poi nel 1550 a Venezia presso l’editore Giolito de’ Ferrari, a cura di A.F. Doni. Vennero poi messe all’Indice (per ragioni moralistiche, per gli accenni irriverenti a papi e prelati) e solo nel Settecento vennero nuovamente pubblicate integralmente.

2 Cfr. Satire, ed. cit., p. 15.

3 Si pensi ancora agli amari accenni alla vita di corte presenti nello stesso Furioso: il che non escluse la sua assidua volontà di encomio degli Este e non abolí la sua convinzione nella bontà di un ordine civile incontrato nei regimi principeschi, magari rivista con la nostalgia dei tempi tardoquattrocenteschi, precedenti alla crisi generale italiana.

4 Nello stesso uso della terzina dantesca l’Ariosto delle Satire mostra la sua volontà di consonanza e dissimilazione con certa moralità ed energia dantesca, da tener ben presente, ma poi non da esagerare, perdendo di vista le consonanze con la saggezza oraziana e con il modo discorsivo-poetico del poeta latino «ora familiare, ora solenne, mobile e vario, mordace e severo», con la sua «affettazione di trascuraggine e alle volte di parlata volgare», come disse Concetto Marchesi.